Nuove prospettive di cura per l’ipoparatiroidismo

L’ipoparatiroidismo è una malattia rara, con un’incidenza di circa 0,8-2,3 nuovi casi ogni 100.000 persone l’anno. In Italia, la prevalenza stimata è di circa 10.589 pazienti. È caratterizzata da un’inadeguata secrezione di paratormone (PTH) da parte delle ghiandole paratiroidi, che determina una riduzione dei livelli di calcio e un aumento dei livelli di fosfato nel sangue.

La maggior parte dei pazienti sviluppa ipoparatiroidismo in seguito a danni o alla rimozione accidentale delle ghiandole paratiroidi durante un intervento chirurgico alla tiroide. Altre cause non chirurgiche includono disordini autoimmuni, disturbi genetici e forme idiopatiche.

Si manifesta con sintomi acuti prevalentemente neuromuscolari, come crampi, parestesie, spasmi muscolari e, nei casi più gravi, crisi tetaniche. Inoltre, i pazienti possono avere disturbi cognitivi ed emotivi, tra cui ansia, depressione e il cosiddetto “brain fog” (annebbiamento mentale).

“Nella fase acuta i sintomi sono neuromuscolari  perché se il calcio è basso il nostro muscolo si contrae e non è in grado di rilassarsi. La malattia, inoltre, può indurre nel paziente notevole confusione mentale e depressione.” – spiega la Professoressa Maria Luisa Brandi, Medico Chirurgo Specialista in Endocrinologia e Malattie del Metabolismo, Direttore della Donatello Bone Clinic e Presidente della Fondazione FIRMO – “Spesso, infatti, la sintomatologia del paziente viene confusa con una malattia neuropsichiatrica. Se non curata adeguatamente questa condizione può provocare anche alterazioni del ritmo cardiaco che portano frequentemente il paziente in Pronto Soccorso in condizioni critiche. E in alcuni casi, letali”.

Le complicanze a lungo termine includono calcificazioni ectopiche nei tessuti molli, l’insufficienza renale unitamente all’aumentato rischio di nefrolitiasi e nefrocalcinosi. Nonché alterazioni cardiovascolari con un aumentato rischio di aritmie e disturbi della conduzione elettrica cardiaca. Inoltre, si riscontra una maggiore incidenza di alterazioni oculari, come la cataratta, e un aumento del rischio di infezioni.

“L’ipoparatiroidismo oltre a causare insufficienza renale, comporta una condizione a basso turnover scheletrico. L’osso risulta essere infatti ipermaturo e con una scarsa capacità di ricambio che potrebbe giustificare il potenziale aumento del rischio di frattura. Questo sembra essere la base fisiopatologica della potenziale fragilità ossea. Possibile segno della patologia. – sottolinea il Dottor Andrea Palermo, Medico Endocrinologo presso l’UOC Patologie Osteo-Metaboliche e della Tiroide, Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico – Queste complicanze possono impattare significativamente la vita del paziente. E per questo motivo, è fondamentale una gestione a lungo termine mirata a prevenirle e migliorare la qualità della vita”.

Negli anni, la gestione dell’ipoparatiroidismo si è basata principalmente sul controllo dell’ipocalcemia attraverso supplementi di calcio e vitamina D attiva, senza però offrire una reale terapia sostitutiva del PTH.

Come affermato dalla Dottoressa Valentina Camozzi, M.D, Ph.D. Specialista in Endocrinologia, Dirigente Medico, Professore a Contratto UOC Endocrinologia, Dipartimento di Medicina, Azienda Ospedaliera Università di Padova: “Nella comune pratica clinica, non è mai stato disponibile un trattamento ottimale per l’ipoparatiroidismo. Poiché le cure si limitano a contrastare il sintomo principale, ovvero l’ipocalcemia, attraverso l’uso di vitamina D attiva e supplementi di calcio.
Spesso mal tollerati e non sempre sufficienti a garantire una stabilità della calcemia. Questo comporta per i pazienti una gestione quotidiana complessa, con il rischio costante di crisi ipocalcemiche, ipercalciuria e danni renali. Talora è possibile l’utilizzo “off label” di un prodotto per i casi più severi che riesce a gestire, anche se solo in parte, le criticità dei pazienti. Di recente è stata introdotta una terapia innovativa, nominata palopegteriparatide, che rappresenta una svolta. Grazie al suo rilascio prolungato, infatti, consente di mantenere i livelli di calcio stabili nell’arco delle 24 ore, riducendo la necessità di supplementi di calcio e migliorando sensibilmente la qualità di vita. Contenendo anche i rischi di sviluppare danni ad altri organi”.

 

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