Malattie cardio-metaboliche: un italiano su 2 in età lavorativa è a rischio medio-alto

Un italiano su due in età lavorativa tra i 40 e i 69 anni presenta un rischio cardio-metabolico medio-alto con un impatto economico associato stimato a 13,4 miliardi di euro l’anno. È quanto riporta il Position Paper “Rischio cardio-metabolico in Italia: il ritorno economico di un programma di screening della popolazione”, realizzato da TEHA Group, società di The European House Ambrosetti.

Pe invertire la rotta, è necessario ripartire dalla prevenzione, elemento chiave nelle politiche di contrasto alla diffusione delle patologie croniche, come quelle cardiovascolari e metaboliche. Per farlo, si deve agire sui fattori di rischio cardio-metabolico modificabili. Una strategia che potrebbe evitare l’80% dei decessi collegati a queste patologie. Programmi di screening cardio-metabolico sulla popolazione target potrebbero migliorare gli outcome di salute. Riducendo negli anni la probabilità di eventi cardiovascolari maggiori, il burden sanitario e offrirebbero un ritorno economico positivo per il Servizio Sanitario Nazionale e il Sistema Paese.

“Investire in programmi di prevenzione cardiometabolica significa ridurre il rischio di complicazioni, abbattere i costi a lungo termine per il trattamento e migliorare la qualità della vita delle persone – aggiunge Riccardo Candido – Presidente dell’Associazione Medici Diabetologi (AMD) e della Federazione Società Diabetologiche Italiane (FeSDI).- Il ritorno sugli investimenti è una delle scelte più lungimiranti che possiamo fare per il nostro sistema sanitario e per la salute delle persone. Ogni euro investito nella prevenzione è un risparmio futuro in termini di trattamenti, ospedalizzazioni e disabilità, ma soprattutto, è un investimento in una vita più sana e in una società più forte”.

Obiettivo del documento prodotto da TEHA Group è stato analizzare l’impatto economico della prevenzione in ambito cardio-metabolico. Valutando sostenibilità ed efficacia di interventi di prevenzione primaria basati su screening mirati e trattamenti precoci. Il Paper che ne è scaturito evidenzia come un approccio preventivo possa non solo ridurre l’incidenza di eventi cardiovascolari maggiori. Ma anche generare un ritorno economico positivo per il SSN e il Sistema Paese.

Le malattie cardiovascolari coinvolgono almeno 9 milioni di persone in Italia, con 670.000 dimissioni in regime ordinario. Pari al 14% del totale, e quasi 221.653 morti, circa un terzo dei decessi registrati nell’anno 2022 (dati ISTAT). Numeri che pongono queste patologie al primo posto come causa di mortalità, di ricovero ospedaliero, nonché come principale causa di disabilità.

“Le malattie cardio-metaboliche sono una delle principali cause di morbidità e mortalità. Il problema di queste patologie e della loro prevenzione è ancora parzialmente non risolto – avverte Claudio Borghi – Professore Ordinario di Medicina Interna presso l’Università degli Studi di Bologna e Componente del CdA dell’Istituto Superiore di Sanità- Ad un aumento delle conoscenze non ha fatto seguito una azione proporzionalmente fattiva. Ed oggi il problema non è sapere di più, ma implementare prima e meglio le conoscenze nelle strategie preventive”.

Secondo gli ultimi dati del Progetto Cuore dell’Istituto Superiore di Sanità, il 98% della popolazione italiana di età compresa tra i 18 e i 69 anni presenta almeno un fattore di rischio cardiovascolare. Tra ipertensione, ipercolesterolemia, diabete, sedentarietà, fumo, eccesso ponderale, scarso consumo di frutta e verdura. Se l’ipercolesterolemia è fattore causale della cardiopatia ischemica, il diabete rappresenta il principale fattore di rischio per lo sviluppo delle malattie cardiovascolari. Allo stesso tempo, le malattie cardiovascolari sono la principale causa di morte nel paziente diabetico. Lo studio PASSI (ISS) rileva nel biennio 2022-2023 che il 41% della popolazione nella fascia 18-69 anni presenta almeno 3 fattori di rischio cardiovascolare.

I fattori di rischio, infatti, aumentano la mortalità: secondo il Global Burden of Disease, il 75% dei decessi per malattie cardiovascolari è attribuibile a fattori di rischio. L’associazione tra i diversi fattori di rischio cardio-metabolici (eccesso ponderale e diabete, diabete e ipertensione arteriosa e dislipidemia) è nota da tempo. Tanto che l’American Diabetes Association e l’American Heart Association parlano di fattori di rischio cardio-metabolico. Con riferimento a iperglicemia, sovrappeso/obesità, pressione elevata e dislipidemia. Perché strettamente correlati a diabete e a malattie cardiovascolari.

La prevenzione, agendo su fattori di rischio modificabili, potrebbe ridurre del 34% la mortalità nella fascia 0-74 anni per i principali gruppi di malattie. Ed evitare fino all’80% dei decessi.

TEHA ha adottato l’algoritmo SCORE2 dell’European Society of Cardiology (ESC) come modello di stratificazione del livello di rischio cardio-metabolico. Che ha permesso di quantificare la distribuzione del rischio nella popolazione italiana in età lavorativa tra i 40 e i 69 anni senza pregressi eventi CV. Nel complesso circa 24,5 milioni di individui.
Ne è emerso che il 50,1% di questa popolazione è a rischio medio-alto. I soggetti a rischio alto rappresentano il 7,5% del totale, mentre quelli a rischio altissimo il 4,2%. Si registra, inoltre, una significativa differenza tra donne (28,6%) e uomini (72,4%). In virtù del fatto che nelle donne il rischio cardio-metabolico cresce significativamente dopo la menopausa.
In aggiunta, la probabilità di andare incontro a un evento acuto nei successivi 10 anni è superiore nella popolazione ad alto rischio (10,9%) rispetto alla popolazione a rischio medio (6,2%) e basso (2,8%). Ai soggetti a rischio medio-alto è associato un costo annuale di 13,4 miliardi di euro. Andando a considerare sia i costi sanitari diretti sia quelli indiretti legati alla perdita di produttività di questi soggetti e dei loro caregiver.

Considerato l’impatto dei fattori di rischio cardio-metabolico sulla mortalità evitabile, la prevenzione primaria rappresenta un elemento chiave per queste patologie.

L’introduzione di un programma di screening per la prevenzione cardio-metabolica dovrebbe comprendere: un questionario sugli stili di vita e un pacchetto di semplici esami, quali misurazione della pressione arteriosa, glicemia per la valutazione dell’emoglobina glicata nel diabete, profilo lipidico e lipoproteina per la valutazione dell’ipercolesterolemia. E, solo per i 65-69enni, un ECG. Tutto ciò consentirebbe di individuare la presenza di eventuali fattori di rischio. E avviare i soggetti con un profilo di rischio medio-alto a un trattamento educazionale e/o farmacologico precoce, prevenendo l’insorgenza di eventi acuti, e non solo.

“Nei programmi di screening cardio-metabolico, un semplice prelievo di sangue e la ricerca di specifici biomarcatori permette di stratificare il rischio cardiometabolico di un paziente/cittadino. E di pianificare interventi mirati di prevenzione e trattamento – puntualizza Marcello Ciaccio – Presidente della Società Italiana di Biochimica Clinica e Biologia Molecolare Clinica – Medicina di Laboratorio (SIBioC) – La Medicina di Laboratorio rappresenta, pertanto, uno strumento essenziale, indispensabile e centrale per garantire efficacia, accuratezza e tempestività nello screening e nella gestione delle malattie cardio-metaboliche”.

Considerando il rapporto tra i benefici derivanti dalla riduzione del rischio cardio-metabolico e i costi associati all’implementazione del programma di screeningne deriva un ritorno dell’investimento che varia tra 1,4 e 1,8, con un ritorno netto di 0,4-0,8 euro per ogni euro investito.

Si ottiene questo risultato ipotizzando una adesione allo screening da parte del 40% dei circa 18 milioni di italiani tra i 40-69 anni che rappresentano il target di questo programma. Ossia individui che non hanno avuto precedenti eventi cardiovascolari e non sono in cura per ipercolesterolemia e/o diabete. Già inseriti in un percorso di presa in carico. Anche se non dovesse essere raggiunta la supposta soglia di adesione del 40%, le simulazioni mostrano che sarebbe sufficiente un’adesione dello 0,3% della popolazione target. Pari a circa 70.000 persone, perché l’intervento sia economicamente sostenibile.

Il ritorno economico è massimo nella fascia d’età più giovane e nei soggetti con un più basso livello di rischio . A conferma che più l’intervento è precoce maggiori sono i benefici ottenuti.

 

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