La 42° edizione del congresso “Conoscere e Curare il Cuore”, in corso a Firenze fino al 23 marzo alla Fortezza da Basso, a cura della fondazione Centro Lotta contro l’infarto, affronta diversi temi di attualità. Con l’obiettivo di consolidare gli approcci terapeutici maggiormente efficaci per la salute dei pazienti. Tra questi, lo stretto legame fra le patologie cardiovascolari e diabete di tipo 2. Specie se associate all’obesità.
Il cardiodiabetologo: non è solo una questione di glicemia
I nuovi farmaci antiobesità hanno rilanciato e trasformato il ruolo del cardiologo, ora un cardiodiabetologo. Infatti, la gestione clinica dei pazienti con diabete di tipo 2 si è evoluta notevolmente nell’ultimo decennio.
«Le strategie di riduzione intensiva del glucosio avevano fino ad allora fallito nel ridurre in maniera convincente morbilità e mortalità cardiovascolari -commenta Francesco Prati, Presidente della Fondazione Centro per la Lotta contro l’Infarto e Direttore Dipartimento Cardio-toraco-vascolare, Azienda Ospedaliera San Giovanni Addolorata, Roma – Questo ha portato per anni alla percezione tra i cardiologi che il controllo di altri fattori di rischio cardiovascolare, quali la pressione arteriosa e il colesterolo legato alle lipoproteine a bassa densità, fossero le sole misure efficaci nel ridurre il rischio cardiovascolare nel diabete di tipo 2. Recentemente, tuttavia, diversi studi clinici con nuovi farmaci ipoglicemizzanti hanno dimostrato una significativa riduzione degli eventi avversi cardiovascolari maggiori. Un risultato dovuto alle proprietà ipoglicemizzanti di questi farmaci. Pertanto, i risultati di questi studi clinici hanno modificato in maniera sostanziale il trattamento dei pazienti. Spostando l’attenzione dal semplice controllo glicemico all’intervento “cardio-metabolico».
Numerose sono le evidenze da studi clinici relativi agli effetti cardioprotettivi degli inibitori di SGLT2 e degli agonisti del recettore GLP-1. I dati di più studi condotti su questi farmaci hanno dimostrato la loro efficacia nel ridurre il rischio di eventi cardiovascolari avversi maggiori, quali morte cardiovascolare, infarto miocardico e ictus. Inoltre, sempre da questi studi è emerso come la presenza o l’assenza di malattia cardiovascolare aterosclerotica non modificasse l’associazione di efficacia del trattamento sui MACE (eventi coronarici, eventi cerebrovascolari, insufficienza cardiaca, nefropatia, fibrillazione atriale e mortalità . Relativamente a ciascun componente dei MACE, inoltre, tali farmaci riducono il rischio di morte cardiovascolare e la mortalità per tutte le cause, ma non il rischio di ictus.
«Sebbene ad oggi gli SGLT2i e i GLP-1 RA abbiano diverse indicazioni per la riduzione del rischio di malattie cardiovascolari in diverse linee guida e raccomandazioni di società internazionali, il loro utilizzo cardiologico è ancora, e ingiustificatamente, inferiore al loro potenziale – aggiunge il Professor Prati – . Sono stati identificati diversi ostacoli alla reticenza prescrittiva da parte dei cardiologi, e quindi proposti interventi per ottimizzare l’adozione di terapie preventive cardiovascolari».
L’impiego di questi farmaci cardio-metabolici è alla base della recente evoluzione che li considera non più solo agenti ipoglicemizzanti, bensì farmaci con importanti effetti di riduzione del rischio cardiovascolare nei soggetti diabetici come prevenzione cardiovascolare primaria e secondaria. Ma anche nell’ambito degli stati disglicemici che precedono lo sviluppo di diabete conclamato.
Nel caso degli SGLT2i gli effetti sullo scompenso cardiaco appaiono indipendenti anche dalla situazione di pre-diabete. Questo è essenziale per comprendere che essi rappresentino una pietra miliare dell’armamentario terapeutico contemporaneo. Che il cardiologo deve conoscere e impiegare in maniera complementare e indipendentemente dai diabetologi.
Il punto sull’obesità: rischio cardiovascolare e novità terapeutiche
Negli ultimi anni un crescente numero di evidenze ha dimostrato uno stretto legame tra obesità e rischio cardiovascolare. Ne è emerso il concetto di “sindrome cardiovascolare-renale-metabolica” (CKM). Una condizione patologica derivante da interazioni tra obesità, diabete mellito di tipo 2, malattia renale cronica e malattia cardiovascolare (tra cui scompenso cardiaco, fibrillazione atriale, malattia aterosclerotica coronarica, stroke e malattia arteriosa periferica). Sia a rischio che conclamata.
Di recente, l’American Heart Association ha proposto uno staging “fisiopatologico” della sindrome cardiovascolare-renale-metabolica Identificando come stadio iniziale la presenza di tessuto adiposo o “adiposità” in eccesso (per BMI ≥25 kg/m2 o obesità viscerale) oppure disfunzionale (per ridotta tolleranza al glucosio o stato di prediabete).
Tale adiposità conduce progressivamente alla insorgenza di fattori di rischio metabolici quali dislipidemia, ipertensione arteriosa, diabete e/o sindrome cardiovascolare-renale-metabolica. Per poi portare alla malattia cardiovascolare subclinica o alla presenza di equivalenti di rischio. Fino ad arrivare alla malattia cardiovascolare clinicamente conclamata.
L’adiposità in eccesso o disfunzionale rappresenta, dunque, il fattore fisiopatologico chiave delle conseguenze multi-sistemiche della CKM. Che vede negli eventi cardiovascolari e nella mortalità cardiovascolare la sua manifestazione clinica più significativa.
Il trattamento farmacologico della obesità viene raccomandato per BMI ≥30 kg/m2, oppure ≥27 kg/m2 in presenza di una o più comorbidità ad essa correlate. Ad oggi risultano approvati sei farmaci per la gestione a lungo termine della obesità non sindromica (ossia genetica).
Tali molecole portano a un calo di peso e ad un miglioramento dei parametri metabolici con potenza ed effetto variabili. E tra queste, semaglutide e tirzepatide. hanno dimostrato la maggiore efficacia. La semaglutide è più efficace nella riduzione del peso corporeo. E ad oggi ha dimostrato una riduzione significativa del rischio cardiovascolare in pazienti affetti da obesità, non diabetici e con malattia cardiovascolare preesistente. Inoltre, insieme a tirzepatide, trova potenzialità anche nel fenotipo di scompenso cardiaco HFpEF collegato alla obesità. In pratica, ha dimostrato di ridurre il rischio di scompenso cardiaco “worsening” (ossia al momento in cui un paziente affetto da scompenso cardiaco va incontro, nonostante una terapia medica ottimizzata, a una fase di instabilità) in un ambito dove vi è da sempre povertà di trattamenti efficaci.
«Nel futuro – conclude il Professor Prati – sarà da valutare l’impatto sul risultato cardiovascolare-renale-metabolico della terapia di associazione con GLP-1 RA e SGLT2-i. Vedremo come le agenzie regolatorie del farmaco e le linee guida internazionali recepiranno le evidenze di semaglutide e tirzepatide nel collocamento dell’obesità e del rischio cardiovascolare».