La notizia della diagnosi. La malattia. E l’impossibilità di uscirne. Nonostante questo, affrontare il tutto con ironia, coraggio, sorprendente voglia di vivere.
Con lucidità e ironia Martino Sclavi racconta nel libro “Un nido in testa – come non sapendo più leggere ho imparato a vivere” (collana Rimmel , 432 pp. – 19,00 euro), la sua convivenza con il cancro al cervello: quattro anni di dura resistenza che lo hanno aiutato a trasformare i suoi «handicap in nuovi modi di vedere le cose e di narrare il riso e il pianto della vita di tutti i giorni».
È il gennaio del 2011 quando il producer e film-maker italiano Martino Sclavi viene ricoverato d’urgenza in un ospedale di Los Angeles a causa di un fortissimo mal di testa che si rivelerà essere un glioblastoma di quarto grado con prognosi di sopravvivenza del 98% e speranza di vita di 18 mesi. Inizia così il libro di Martino Sclavi (1972-2020), con la traduzione di Federica Martina Iarrera e il prezioso contributo di Marianella Sclavi – uscito nel 2017 per Hodder & Stoughton nel Regno Unito e dal 22 ottobre distribuito anche in Italia, la narrazione della convivenza con una terribile e devastante malattia – il cancro al cervello – e delle sue conseguenze nella vita personale, sociale e familiare.
Con intelligente ironia, sarcasmo e una ineguagliabile lucidità, Martino Sclavi accompagna il lettore nella sua nuova vita, tra vuoti mnemonici, incapacità di lettura e inedite modalità creative ed espressive per vivere il quotidiano, come il cucito e la stesura di questo libro, una raccolta di «memorie tragicomiche sul sopravvivere a eventi impossibili, scritte da un uomo che non può leggere».
Martino Sclavi è un regista, sceneggiatore e produttore italiano che lavora tra Londra, Monaco, Roma e Los Angeles, con una vita impegnativa e sempre sulla cresta dell’onda fatta di impegni mondani, contatti con produttori, registi, sceneggiatori, voli transcontinentali e battute da scrivere, leggere e memorizzare ogni giorno, fino a quando un costante mal di testa compare con insistenza e frequenza sempre maggiore. Ma siamo a Los Angeles, non c’è tempo per cercarne le cause. Qualche mese dopo, nel gennaio del 2011, Martino viene ricoverato d’urgenza in un ospedale della città e qui i medici emettono l’amaro verdetto: cancro al cervello con speranza di vita di un anno e mezzo. Senza perdersi d’animo e incoraggiato dagli affetti più cari – la sorella Bianca, la moglie Margarita e la madre Marianella – dopo il primo intervento si sottopone a una seconda operazione, questa volta al Policlinico di Roma, durante la quale verrà asportato l’ultimo 20% della massa tumorale in uno stato di semi-incoscienza. Da questo momento qualcosa in Martino cambia, non riesce più a leggere e a comprendere il significato delle parole, senza contare le difficoltà di concentrazione e di memorizzazione: «È una perdita terribile» racconta Martino Sclavi a Rachel Cooke per “The Guardian” (11/06/2017), «Ero un produttore. Sceneggiature, diritti da registrare: la mia vita dipendeva da quelle cose. Ma non penso di dover più essere avido: sarei dovuto essere morto, e sono vivo». Così Martino inizia a scrivere il suo memoir (in lingua inglese) per cercare di ricordare ogni attimo della sua nuova vita e lo fa grazie a due cose: la sua capacità di digitare una tastiera anche a occhi chiusi e Alex, la app per la rilettura dei testi, diventata poi un’insostituibile terapista.
Composto da due livelli narrativi (riconoscibili anche visivamente nel testo), nel suo libro Martino Sclavi offre al lettore lo spaccato della sua vita pre-tumore dal 2004 al 2010, quando questa poteva dirsi “normale”, e post operazione, dal 2011 al 2015, anno in cui ha terminato il libro. Si tratta di due livelli interconnessi tra loro, una concatenazione di eventi, fatti e persone che delineano la vita del protagonista ante e post 2011. È nel primo livello che conosciamo il lavoro e la cerchia familiare e delle amicizie di Martino, come l’amico Russel Brand, comico londinese ed ex marito di Kate Perry, con il quale il protagonista condividerà moltissimi momenti della sua vita; l’amata moglie Margarita, psichiatra macedone con l’hobby del design che le darà un figlio, Miro; la famiglia Sclavi – con le sue origini in terra senese – con gli zii Fabrizio e Antonio, la madre Marianella (vedova di Gaetano Sclavi) e la sorella Bianca.
Il secondo livello – che è anche il fulcro del volume – ci presenta il “nuovo” Martino, il ritratto decisamente più intimo e introspettivo di un uomo capace di vivere con lucidità e consapevolezza una situazione così drammatica capace di essere annientata solo attraverso la scrittura di questo libro: «L’ho iniziato poco prima della seconda operazione perché avevo paura che sarei morto» dice. Cosa pensi del libro, adesso? «Che mi ha salvato, a livello mentale.» (da “The Guardian”, 11/06/2017).
Contro ogni aspettativa, Martino scoprirà che il suo cervello non è solo un vuoto che rende più ardua la sua esistenza, ma un nido, dove si palesa, fiera e vivace, una speranza inaspettata, un fringuello che lo aiuta a spiccare il volo in una vita che supera qualsiasi previsione.
Martino Sclavi è morto il 5 marzo 2020 ed ha trovato sepoltura nel Cimitero acattolico di Roma.
Il libro si chiude con una Postfazione che raccoglie le testimonianze delle quattro donne che hanno seguito la vita di Martino tra il 2015 e il 2020, anno del decesso: la madre Marianella Sclavi, la regista londinese Penny Woolcock, la nuova compagna Kerry Brewer e la sorella Bianca Sclavi: quattro diversi testi, quattro modi di vivere la malattia, quattro modi di amare.