La mielofibrosi è un tumore particolarmente aggressivo del sangue che colpisce il midollo osseo, impedendogli di formare correttamente globuli rossi, globuli bianchi e piastrine. L’incidenza in Europa varia fra 0,25 e 1,50 casi ogni 100.000 abitanti, il che significa 350 nuove diagnosi all’anno in Italia, in particolare in persone tra i 60 e i 70 anni.
Recentemente l’EMA ha approvato un nuovo farmaco, momelotinib, che sarà disponibile in Italia a partire dal prossimo settembre. Per approfondire la mielofibrosi e fare il punto sugli sviluppi della scienza medica nelle neoplasie del sangue si è svolto a Verona presso la sede GSK, impegnata da tempo in oncoematologia, soprattutto in aree di ricerca e sviluppo considerate rare, per quelle neoplasie che oggi non hanno o hanno pochissime possibilità terapeutiche, un incontro con due tra i maggiori esperti della materia, il prof. Francesco Passamonti, Ordinario di Ematologia all’Università di Milano e il prof. Alessandro Vannucchi, Ordinario di Ematologia all’Università di Firenze.
“La mielofibrosi è un tumore del midollo osseo – spiega il professor Passamonti – caratterizzata dalla proliferazione di globuli rossi e dall’accumulo di tessuto fibroso, condizione che può causare cicatrici e danni al midollo osseo. Può insorgere autonomamente oppure come conseguenza della progressione di un’altra malattia, la policitemia vera o la trombocitemia essenziale. Sintomi e manifestazioni cliniche sono dovuti all’infiammazione e al sovraccarico di citochine. Circa un terzo dei pazienti è anemico e di conseguenza accusa fatigue, perdita di peso, fiato corto“.
Nel mondo, circa 1 paziente su 500.000 è affetto da mielofibrosi. Sebbene la causa non sia del tutto nota, ci sono diversi fattori che influenzano la sua comparsa. “La malattia, che è più comune negli uomini e l’età media è intorno ai 65 anni – puntualizza il professor Vannucchi – può insorgere a causa della disregolazione della cosiddetta via JAK-SAT causata da mutazioni driver. In pratica, le mutazioni driver sono cambiamenti nelle sequenza genetica dei geni che portano allo sviluppo del cancro e delle metastasi. Circa l’85% dei pazienti presenta mutazioni driver in almeno uno di tre tipologie di geni: JAK2, MPL, CARL. Tali mutazioni non solo provocano la malattia ma influenzano anche la sopravvivenza, il rischio che si trasformi in leucemia e in citopenie come l’anemia“.
Il panorama delle terapie è limitato, e spesso accompagnato da pesanti effetti collaterali che richiedono un ulteriore supporto e riducono la qualità della vita. L’anemia è spesso aggravata dai Jak inibitori e richiede trasfusioni di sangue. Inoltre, non tutti i pazienti possono essere sottoposti al trattamento a causa dei sintomi e del numero delle piastrine. Vi è quindi la necessità di impiegare trattamenti che possano essere mantenuti a una dose efficace per il controllo della malattia a lungo termine.
Tra i farmaci impiegati il momelotinib, in arrivo anche in Europa, oltre a bloccare i JAK1 e JAK2, riduce efficacemente la produzione di epcidina (un ormone prodotto dal fegato), ripristinando l’assorbimento del ferro e aumentando i livello di emoglobina. Inoltre, agisce sui sintomi , la splenomegalia (l’ingrossamento della milza) e le citopenie (patologie non oncologiche caratterizzate dalla riduzione di neutrofili, globuli rossi o piastrine distrutti da parte di autoanticorpi diretti contro antigeni espressi sulla loro superficie).
Momelotinib ha dimostrato una minore dipendenza dalle trasfusioni e i dati sulla sopravvivenza complessiva evidenziano le differenze rispetto ad altri trattamenti in termini di capacità di influire positivamente sugli esiti dei pazienti. Inoltre, è l’unico JAk inibitore in grado di migliorare l’anemia.