Silente, asintomatica. Si potrebbe dire che…lavora sotto copertura. Per poi esplodere. Causando cirrosi epatica e cancro del fegato. È questo spesso l’iter dell’ epatite C, malattia malattia infiammatoria del fegato causata dal Virus dell’HCV.
Un virus subdolo, ma letale, che secondo l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) colpisce nel mondo oltre oltre 58 milioni di persone, con circa 1,5 milioni di nuovi contagi ogni anno. In Italia si stima che ci siano oltre 300.000 pazienti da trattare, di cui più di 200.000 non ancora diagnosticati. L’Italia, tra l’altro, ha il primato in Europa per numero di soggetti positivi all’Epatite C e di mortalità per tumore primitivo del fegato correlato al virus e detiene una grande numerosità di pazienti affetti dalla malattia ignari della propria condizione. Il bacino di pazienti a più alta prevalenza è rappresentato dai consumatori di sostanze stupefacenti (PWID – People Who Inject Drugs).
Su questi numeri ma soprattutto su quelli “sommersi” e sulle terapie disponibili si focalizza “Mind the GaPs in PWIDs. The shortest Route to Treat”, iniziativa itinerante promossa da AbbVie, partita da Roma, con prossimi appuntamenti a Torino e Lecce. Tre incontri che hanno come principale obiettivo quello di sensibilizzare gli epatologi circa la diagnosi, la gestione e il trattamento del paziente con Epatite C.
Nell’identificazione dei pazienti per l’eradicazione di questa patologia, l’Italia ha oggi la grande opportunità del programma nazionale di screening gratuito a disposizione delle Regioni. Stanziato fino a Dicembre 2023, è rivolto a 3 categorie di popolazione: i nati nelle fasce d’età 1969-1989, le persone seguite dai Servizi Pubblici per le Dipendenze (SerD) e le persone detenute in carcere.
“Se una persona non rientra nelle tre categorie che hanno accesso gratuito allo screening ma ha il dubbio di essere stata esposta ad un potenziale contagio, per prima cosa deve eseguire il test per la ricerca degli anticorpi HCV – afferma Leonardo Baiocchi,Professore Associato di Gastroenterologia Università Tor Vergata di Roma, Dirigente Responsabile f.f. Unità Operativa Complessa di Gastroenterologia Policlinico Università di Tor Vergata – per il quale sono necessari una ricetta rilasciata dal medico di famiglia e un prelievo di sangue. Se il test è positivo, il consiglio è quello di rivolgersi subito ad un centro di malattie infettive o esperto in malattie del fegato per una tempestiva valutazione clinica, cui seguirà il trattamento antivirale. Le attuali terapie antivirali ad azione diretta sono accessibili a tutti. La loro azione consiste nel bloccare la replicazione del virus HCV che non si moltiplica più. Nel caso del trattamento con glecaprevir/pibrentasvir l’eliminazione del virus si ottiene in 8 settimane, con un’efficacia in oltre il 95% dei casi3. Si tratta di un’opzione terapeutica che ha cambiato radicalmente la storia della malattia con un impatto importante sulla qualità di vita dei pazienti consentendo di ridurre le cirrosi, il tumore del fegato e persino, in certi casi, evitare il trapianto di fegato; un avanzamento scientifico davvero significativo per un Paese come il nostro con un’endemia per epatite C tra le più alte al mondo”.
Il virus si trasmette attraverso il contatto diretto con sangue infetto, per cui i principali fattori di rischio sono:
- lo scambio di siringhe usate
- le trasfusioni di sangue non controllate e non testate
- le strumentazioni mediche e chirurgiche (cure dentali, tatuaggi, piercing) non adeguatamente sterilizzate
- condotte sessuali a rischio e non protette
- trasmissione da madre infetta a figlio durante il parto.
Nell’epatite C il virus determina infiammazione e formazione di tessuto cicatriziale nel fegato. Si moltiplica prevalentemente nelle cellule epatiche evolvendo nella maggior parte dei casi in epatite cronica, fibrosi, cirrosi, carcinoma epatico. A differenza delle epatiti A e B, a tutt’oggi non è disponibile alcun vaccino. Se il virus persiste nell’organismo a distanza di 6 mesi dal contagio, l’infezione diventa cronica e può causare una infiammazione permanente del fegato (epatite cronica) che, col tempo, può portare anche alla cirrosi epatica e al tumore del fegato (epatocarcinoma).
Nel nostro Paese, nonostante l’elevato numero di pazienti trattati fino ad oggi con i nuovi farmaci e i buoni risultati ottenuti, per raggiungere l’obiettivo di eradicazione sono necessari ulteriori sforzi mirati ad ottimizzare l’accesso allo screening soprattutto per le categorie a rischio.
“C’è ancora molto da fare, è fondamentale portare allo scoperto un “sommerso” importante rappresentato dalla popolazione che non aderisce allo screening gratuito, perché ignara di essere infetta o perché difficile da trattare, come ad esempio i consumatori di sostanze stupefacenti (PWID) che costituiscono una categoria ad alto rischio e ad alta prevalenza di HCV – dichiara Ivana Maida, Professore Associato di Malattie Infettive Università di Sassari e Dirigente Medico SC di Malattie Infettive AOU di Sassari – Trattare questo target di popolazione significa portare avanti interventi di medicina preventiva, dal momento che uno di questi soggetti con infezione HCV può arrivare ad infettare almeno altre 20 persone4 e il trattamento potrebbe ridurre in maniera significativa i costi di comunità molto più rispetto al paziente con HCV non complicato da consumo di droghe. Resta il problema di come “agganciare” questa categoria ad alto rischio, in molti casi costituita da utenti dei SerD, per sottoporli allo screening gratuito. In questi anni gli stessi servizi hanno implementato l’attività di screening e di diagnosi attraverso: interventi integrati di tipo sanitario e sociale che creano un link con i SerD stessi; interventi multidisciplinari; interventi di prossimità con reti assistenziali sul territorio collegate a strutture ospedaliere e territoriali e individuali centrati sulla persona. Certamente la terapia breve a 8 settimane aiuta molto a mantenere aderenti al trattamento questi pazienti5 e facilita la loro gestione globale”.
L’Epatite C, pur colpendo il fegato, viene considerata una malattia sistemica a tutti gli effetti. Circa due terzi dei pazienti con infezione da HCV cronica sviluppa manifestazioni extraepatiche che hanno dimostrato di avere un ruolo nella mortalità da HCV. Chi soffre di epatite C va incontro, con il passare degli anni, ad una serie di disturbi collegati in parte all’aumento dell’infiammazione che la malattia genera.
“L’infezione da HCV può colpire diversi organi e apparati e la guarigione ottenuta con i farmaci antivirali diretti ha un impatto significativamente positivo sulla qualità di vita del paziente – commenta Miriam Lichtner, Professore Ordinario di Malattie Infettive Sapienza Università di Roma, Primario UOC Malattie Infettive Ospedale Santa Maria Goretti di Latina e Membro SIMIT (Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali) – Può essere causa e complicanza di malattia renale cronica ed è dimostrata la relazione causale tra epatite cronica C e insulino-resistenza così come un’influenza negativa sul metabolismo dei lipidi, dell’osso, dell’apparato riproduttivo ed endocrino, sul sistema immuno-mediato e, infine, a carico della componente neuropsichica. Abbiamo potuto constatare come l’eliminazione del virus con i farmaci antivirali ad azione diretta può portare, grazie ad una risposta virologica sostenuta, ad un netto miglioramento o risoluzione delle complicanze extraepatiche, le cosiddette malattie HCV-associate. Questi risultati rafforzano l’importanza della diagnosi e del trattamento precoce di tutti i pazienti con infezione da HCV”.