In Italia i numeri delle malattie vascolari devono far riflettere. Perchè sono responsabili del 44% di tutti i decessi. Non solo. Si stima che nei pazienti che hanno già avuto un evento cardiovascolare, la probabilità di avere una recidiva è del 50% al primo anno, mentre in caso di evento ricorrente questo si alza raggiungendo il 75% nell’arco dei tre anni successivi. Le complicazioni e gli eventi cardiovascolari gravi sono soprattutto l’infarto miocardico e l’ictus. Sono i cosiddetti pazienti ad elevato rischio cardiovascolare residuo, una condizione che può avere grande impatto su chi soffre di una malattia cardiovascolare anche se in trattamento con terapie standard.
Le strategie attuali, farmacologiche e non, dunque, non azzerano il rischio di nuovi eventi cardiovascolari, ovvero il rischio residuo. Tra i fattori da tenere sotto controllo i trigliceridi, che al pari del colesterolo LDL, contribuiscono alla creazione delle placche aterosclerotiche.
“Per rischio cardiovascolare residuo si intende la probabilità di sviluppare un evento cardiovascolare maggiore nonostante il paziente sia sottoposto al trattamento con le terapie standard raccomandate, oggi in grado di tenere efficacemente sotto controllo alcuni parametri, quali ad esempio ipertensione, colesterolo e glicemia” – spiega Giuseppe Ambrosio, Professore e Direttore di Cardiologia, Azienda Ospedaliera Università di Perugia. “Questo è vero in tutti quei pazienti che vengono trattati in maniera ottimale, ma è ovviamente maggiore quando il trattamento non sia ottimale. Si aggiungono poi ulteriori fattori che concorrono ad aumentare il rischio residuo quali ad esempio l’utilizzo di farmaci non particolarmente potenti, la scelta di dosi non sufficientemente elevate, scarsa compliance da parte del paziente e, non da ultimo, altre patologie collaterali. Si stima che la percentuale di rischio residuo in pazienti con precedenti eventi sia di circa il 30% maggiore rispetto ai soggetti sani”. Inoltre, nei pazienti che hanno già avuto un evento cardiovascolare il tasso di recidiva è del 50% al primo anno, mentre in caso di evento ricorrente questo si alza raggiungendo il 75% nell’arco dei tre anni successivi.
Svariati sono i fattori che influenzano il rischio cardiovascolare residuo, oltre ai fattori noti ma non modificabili quali età, sesso e predisposizione genetica. Sono da considerare , infatti, adiposità addominale, pressione arteriosa, insulino-resistenza e fumo. Anche le dislipidemie giocano un ruolo importante nella probabilità di sviluppare un evento cardiovascolare, in particolar modo gli alti livelli di LDL, volgarmente noto come “colesterolo cattivo”, ma anche alcune lipoproteine, tra cui la lipoproteina a, e i trigliceridi, che sono microparticelle di grassi che circolano nel sangue.
Negli ultimi anni si è compreso che, nonostante i trattamenti in grado di tenere sotto controllo il colesterolo cattivo (LDL), rimane una elevata probabilità da parte del paziente, di incorrere in un nuovo evento cardiovascolare. La placca aterosclerotica, principale causa dell’infarto, subisce delle modifiche anche a causa di altri fattori concomitanti, quali i trigliceridi. Al pari del colesterolo, infatti, i trigliceridi contribuiscono a indurre una risposta infiammatoria nelle pareti delle arterie, ed al fenomeno di formazione delle placche aterosclerotiche, che nel tempo provocano un restringimento dei vasi sanguigni limitando l’afflusso di sangue.
“Ad oggi sono diverse le misure terapeutiche efficaci per tenere sotto controllo il rischio lipidico, tra cui le statine, ezetimibe e i farmaci biologici, ma nonostante questi trattamenti una buona percentuale di pazienti continua ad essere esposta ad un rilevante rischio residuo, legato ad una serie di componenti che non siamo ancora in grado di gestire al meglio come il rischio residuo infiammatorio, l’elevata concentrazione sierica di acido urico (iperuricemia) e infine la problematica molto diffusa dei trigliceridi” – spiega Furio Colivicchi, Presidente dell’Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri (ANMCO).
Il ruolo dei trigliceridi è stato rivalutato solo recentemente, quando si è osservato come, nel paziente con valori di colesterolo normalizzati dal trattamento con statine, la presenza di elevati livelli di trigliceridi costituisse ancora un fattore di rischio cardiovascolare rilevante e quindi come fosse necessario mantenerlo controllato.
È in questo scenario che si inserisce icosapent etile: un estere altamente purificato dell’acido eicosapentaenoico (EPA), che ha dimostrato nell’ambito dello studio REDUCE-IT come il suo utilizzo si associ ad un miglioramento sostanziale della prognosi clinica in pazienti con rischio cardiovascolare molto elevato ed elevati livelli di trigliceridi (≥ 150 mg/dL).
“Icosapent etile, grazie alla sua formulazione altamente purificata di EPA, ha dimostrato di avere un effetto significativo, in termini di sicurezza ed efficacia, non solo nella riduzione dei livelli di trigliceridi, ma anche su una serie di altre componenti clinicamente rilevanti, come il rischio aritmico” – continua il Prof. Furio Colivicchi. “L’aspetto interessante è che il suo effetto sembra essere in qualche misura indipendente dai trigliceridi. Infatti, altri trattamenti farmacologici in grado di abbassare i livelli dei trigliceridi non hanno avuto un impatto favorevole sulla prognosi clinica dei pazienti. Solo icosapent etile è risultato efficace nel ridurre i trigliceridi e dimostrare al tempo stesso un beneficio clinico significativo”.
“Le malattie cardiovascolari sono i veri big killer dei paesi industrializzati. Solo per citare qualche dato, la cardiomiopatia ischemica è responsabile del 28% di tutte le morti, mentre gli eventi cerebrovascolari sono al terzo posto con il 13%, dopo i tumori” – spiega Claudio Bilato, Direttore Unità Operativa Complessa di Cardiologia, Ospedali dell’Ovest Vicentino. “La pandemia ha inoltre contribuito ad aggravare la situazione. Il covid-19 ha agito sulle patologie del cuore a diversi livelli: nelle persone colpite dal virus ha generato infezioni del tessuto miocardico, trombosi, aritmie e cardiomiopatie da stress; secondariamente ha contribuito a ritardare la diagnosi, complicando la gestione e l’aspetto di prevenzione delle malattie cardiovascolari e riducendo le ospedalizzazioni per scompenso. Mentre, nel prossimo futuro scopriremo le implicazioni sociali, come isolamento, depressione e ansia, ed economiche che questa pandemia ha lasciato sulla popolazione”.