Silenziosamente, anno dopo anno, la densità ossea si riduce. Fino a quando una frattura rivela la sua presenza. In molti casi si scopre così di soffrire di osteoporosi, malattia cronica che indebolisce le ossa, rendendole fragili e più soggette a fratture.
Nel nostro Paese ne soffrono circa 4 milioni e 400 mila persone (80% donne e 20% uomini). Ma la buona notizia è che oggi i clinici hanno a disposizione trattamenti farmacologici efficaci. “Questo aspetto è stato a lungo trascurato, nonostante l’ingente onere economico per l’assistenza sanitaria legata all’osteoporosi – afferma il Professor Iacopo Chiodini, Presidente SIOMMMS, Professore Associato di Endocrinologia all’Università degli Studi di Milano e Direttore della Struttura Complessa di Endocrinologia dell’ASST Ospedale Niguarda di Milano– Parliamo, infatti, di 9,5 miliardi di euro spesi in Italia nel 2019, di cui 5,44 miliardi per i costi diretti delle fratture da fragilità, 3,75 miliardi per quelli della disabilità a lungo termine e 259 milioni per gli interventi farmacologici”.
“Per le persone che hanno subito una frattura da fragilità – aggiunge il Professor Chiodini – il rischio di subirne una seconda è 5 volte più elevato rispetto a chi non è incorso in questo evento. Nonostante l’adozione di una terapia adeguata sia in grado di ridurre questo rischio fino al 65-70%, nella realtà il problema del sotto-trattamento è preoccupante. Il Rapporto SCOPE ‘21 suggerisce che in Italia 2 milioni e 900 mila donne necessitino di un trattamento per l’osteoporosi, ma il 71% di esse non riceve alcun trattamento farmacologico. Gap terapeutico che non riguarda solo il nostro Paese, ma si osserva in tutta Europa. Poiché si prevede che l’incidenza di queste fratture in Italia aumenti del 23,4% entro il 2034, è giunto il momento di interrompere questa spirale negativa e di agire, individuando per tempo i pazienti fragili, trattandoli tempestivamente”.
Fino ad oggi i farmaci utilizzati per curare l’osteoporosi sono stati principalmente due: quelli che stimolano gli osteoblasti (cellule specializzate nella produzione di tessuto osseo), detti anche “anabolici” e quelli che riducono l’attività delle cellule che rimuovono l’osso, conosciuti come “anti riassorbitivi”.
In questo panorama, romosozumab, farmaco sviluppato da UCB in collaborazione con Amgen, costituisce una novità assoluta nel campo dell’osteoporosi dopo 15 anni. Indicato per il trattamento dell’osteoporosi severa in donne in post-menopausa ad alto rischio di frattura, dopo essere stato approvato nell’aprile 2019 dall’FDA e nel dicembre dello stesso anno dall’EMA, ha ottenuto da parte di AIFA la rimborsabilità anche in Italia.
Ad oggi infatti è l’unica molecola disponibile nella pratica clinica con un duplice effetto: da un lato stimola l’attività degli osteoblasti, quindi la neoformazione ossea, dall’altro riduce l’attività delle cellule che rimuovono il tessuto osseo (osteoclasti). Funzioni che venivano svolte da classi farmacologiche distinte: gli anabolici e gli anti-riassorbitivi. Per questo, quella con romosozumab viene definita una terapia “osteo-regolatrice”, perché va a correggere lo sbilanciamento tipico dell’osteoporosi tra l’attività degli osteoblasti e quella degli osteoclasti, che comporta un altro grave problema di salute pubblica: le fratture da fragilità.
Come afferma il Professor Maurizio Rossini, Professore Ordinario di Reumatologia presso l’Università degli Studi di Verona, Direttore dell’Unità Operativa di Reumatologia dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona “irisultati del suo impiego sono molto positivi: in un anno riesce ad incrementare la massa ossea quanto gli altri attuali farmaci riescono a fare solo dopo almeno 5 anni: per questo lo chiamano “bone builder”. Gli studi hanno dimostrato che con un solo anno di trattamento è possibile ridurre il rischio di fratture vertebrali da fragilità del 70%, il doppio di quello che riesce a fare, ad esempio, l’alendronato, attualmente considerato il trattamento di riferimento principale. La rapidità d’effetto rende questa terapia molto attraente, anche in prima linea, in particolare per i pazienti a elevato rischio di frattura, con forme più gravi di osteoporosi o con un rischio imminente di ri-fratturarsi, come i pazienti incorsi in una recente frattura da fragilità.”
La sicurezza e l’efficacia di romosozumab sono state dimostrate in 19 studi clinici su un totale di oltre 14mila pazienti. Nello Studio, denominato FRAME, un anno di trattamento con il farmaco ha ridotto del 73% il rischio di una nuova frattura della colonna vertebrale (frattura vertebrale) rispetto al placebo. Questo beneficio è stato mantenuto nel secondo anno dello studio, quando romosozumab è stato seguito da un anno di denosumab rispetto al placebo seguito da denosumab.
Nel secondo studio, ARCH, un anno di trattamento con romosozumab, seguito da un anno di alendronato ha ridotto il rischio di una nuova frattura vertebrale del 50% rispetto ai soli due anni di alendronato. La terapia con romosozumab seguita dall’alendronato ha, inoltre, ridotto il rischio di fratture in altri siti rispetto al solo alendronato.
Oggi la raccomandazione di ricorrere a romosozumab nei pazienti a rischio di frattura molto elevato trova il supporto, anche delle Linee Guida sulla “Diagnosi, stratificazione del rischio e continuità assistenziale delle Fratture da Fragilità”, recentemente pubblicate dall’Istituto Superiore di Sanità e frutto della condivisione delle maggiori Società Scientifiche interessate.
“Anche per romosozumab, come per teriparatide (un altro farmaco anabolico), vi sono dei limiti temporali per l’impiego, oltre i quali non vi sono sostanziali benefici – aggiunge il Professor Rossini – Per ottimizzare i quali, una possibilità è la terapia sequenziale: una strategia terapeutica che prevede, ad esempio, 1 anno con romosozumab, seguito da un trattamento con un inibitore delle attività degli osteoclasti, come i difosfonati o denosumab. In questo modo è possibile mantenere o incrementare il guadagno ottenuto: con l’approccio sequenziale, ad esempio, romosozumab-denosumab in due anni sarà possibile ottenere risultati che attualmente richiederebbero sette anni”.
“Quella di romosozumab è per noi di UCB Pharma una storia importante – dichiara Federico Chinni, Amministratore Delegato di UCB Pharma Italia – Nato dalla scoperta di una patologia, la sclerosteosi e dalla sua causa, il farmaco non solo è una novità assoluta nella cura delle fratture da fragilità, già inserita nelle Linee Guida ad esse dedicate, ma ha modificato l’approccio della presa in carico del paziente fratturato, e ha introdotto una nuova strategia terapeutica, quale il trattamento sequenziale. Questo traguardo dimostra come i continui sforzi attraverso la ricerca di soluzioni innovative che colmino i bisogni insoddisfatti di alcune patologie, possano costituire un concreto aiuto per rispondere alle necessità dei pazienti”.
Necessità che passano anche dal problema delle ri-fratture da osteporosi,c he richiedono una continuità assistenziale. Perchè il paziente con fratture da fragilità è un paziente cronico, e come tale va seguito anche dopo l’evento acuto, e per fare ciò è necessaria la ormai nota, anche se poco attuata integrazione ospedale-territorio, PDTA efficaci, strutture dedicate quali le Fracture Liaison Services, già attive in diversi Paesi Europei con buoni risultati, che stanno lentamente entrando anche nel nostro Paese.
“L’osteoporosi si inserisce nell’alveo delle patologie croniche e come tale deve essere trattata, con percorsi dedicati, un approccio multidisciplinare e una totale presa in carico del paziente – continua la Professoressa Maria Luisa Brandi, Presidente di FIRMO, Presidente dell’Osservatorio Frattura da Fragilità e Membro del Board di International Osteoporosis Foundation – Purtroppo l’osteoporosi è una condizione subdola che spesso viene intercettata a seguito di una frattura e quindi quando è già in fase avanzata. Ciò implica che il paziente dovrebbe essere seguito e monitorato dal momento della prima frattura in poi, effettuando una diagnosi differenziale del paziente fragile, individuando un percorso dedicato e scegliendo la migliore terapia disponibile. Per questo motivo trovo sia molto efficace il progetto che IOF ha lanciato in occasione del proprio 10° anniversario, chiamato ‘Capture the Fracture’. La prima frattura è, infatti, un campanello d’allarme, da qui l’idea di ‘catturarla’, per avviare il paziente verso un percorso corretto. In questo senso ritengo che il nostro Paese si stia muovendo bene per cercare di dare sempre maggiore attenzione al problema. Siamo stati, infatti, il primo Paese al mondo a redigere le Linee Guida sulle Fratture da Fragilità, emanate dall’ISS nel 2021, con obiettivi quali la diagnosi differenziale, la stratificazione del rischio di ri-frattura e la continuità assistenziale, alle quali ora si rifaranno tutti gli altri Paesi. E da questo documento è necessario partire per costruire percorsi dedicati ai pazienti fratturati. Abbiamo perseguito questo obiettivo per anni, da un lato raccogliendo nella pratica clinica quotidiana i bisogni dei pazienti e di molti specialisti che lamentavano la mancanza di un riferimento basato sulle evidenze, dall’altro cercando di sensibilizzare le Istituzioni e i decisori sulla necessità di prendersi in carico questa epidemia silenziosa rappresentata dalla fragilità ossea non correttamente diagnosticata”
“Quando come Cittadinanzattiva abbiamo aderito alla Coalizione FRAME®, un’alleanza aperta a tutte le forze sociali e del mondo clinico, finalizzata al coinvolgimento delle Istituzioni e della classe politica per giungere alla formulazione di una proposta strategica condivisa circa le fratture da fragilità, l’elemento che da subito abbiamo messo in rilievo è stata la necessità di arrivare a una diagnosi precoce – dichiara Tiziana Nicoletti, Responsabile Coordinamento nazionale delle Associazioni dei Malati Cronici e rari Cittadinanzattiva – In questo modo, infatti, c’è la possibilità di prendere in carico la persona con frattura da fragilità in modo totale, a partire da quando si verifica l’evento della frattura, al momento in cui è in ospedale, quando viene dimessa, prospettando una prossimità assistenziale, una indicazione farmaceutica e terapeutica ben precisa, che potrebbe essere anche a livello riabilitativo. Spesso si tratta di persone anziane, sole, che non sanno come orientarsi. È, quindi, necessaria una struttura territoriale in grado di farsene carico. Per questo, come primo passo abbiamo redatto uno specifico PDTA, non tanto per standardizzare, ma per uniformare su tutto il territorio nazionale la possibilità di esercitare un diritto da parte dei pazienti, cosa per noi fondamentale.”
“All’interno delle Fracture Liaison Services ci sono molte figure in grado di interagire nel percorso della presa in carico del paziente con fratture da fragilità al fine di prevenire ulteriori fratture – dichiara il Professor Umberto Tarantino, Professore Ordinario delle Malattie dell’Apparato Locomotore presso l’Università Tor Vergata di Roma, Direttore U.O.C. Ortopedia e Traumatologia B Policlinico Tor Vergata UniRoma 2 – Al di là del trattamento di osteosintesi nella fase acuta, la frattura da fragilità richiede inevitabilmente un trattamento multidisciplinare, perché mira al ripristino dell’equilibrio dell’osso che ha subito il danno. Uno specialista ortopedico ha, rispetto agli altri, un grande vantaggio, perché proprio nella sua formazione acquisisce le informazioni necessarie per identificare quali sono le fratture da fragilità. È necessario, in primo luogo, identificare la causa di una frattura, solo così sarà possibile prevenire una eventuale successiva. Il mio ‘motto’ è: ‘cura, pensa, previeni’. Uno specialista, infatti, deve curare una frattura, pensando a perché l’osso si è fratturato e solo così sarà possibile prevenire una seconda frattura. Fortunatamente per le fratture da fragilità oggi la comunità medico scientifica ha a disposizione un’ampia scelta terapeutica da prescrivere, per un trattamento personalizzato al profilo del paziente. È importante trasferire al paziente fratturato un sereno approccio propositivo nella cura, che restituisce ottimi esiti se partecipata in maniera sinergica da chi deve seguire le indicazioni dello specialista. E’ importante coinvolgere con dettagliate informazioni e motivare il paziente, affinche comprenda l’importanza dell’aderenza terapeutica e abbia la consapevolezza della gravità di una mancata compliance”.