Termoablazione: il calore che combatte i tumori

Non e’ una tecnica nuova, tanto e’ vero che il suo utilizzo risale agli anni ’90. Ma nel corso del tempo  la termoablazione percutanea, efficace per il trattamento di alcuni tipi di tumori ha visto una progressiva evoluzione delle tecnologie utilizzate, fino al recente utilizzo delle microonde, con l’obiettivo di raggiungere una sempre maggiore precisione, efficacia e sicurezza per il paziente.

Le tecniche di termoablazione sono basate sullo sviluppo di calore all’interno di una lesione ‘target’, raggiungendo una temperatura superiore a 50 gradi e provocando la morte cellulare. Queste procedure possono essere effettuate sia nei confronti di tumori primari, che secondari dei tessuti parenchimali (fegato, rene, polmone) e delle ossa. Tuttavia è importante trattare non solo la lesione tumorale, ma occorre eliminare anche i margini di tessuto “sano” che, nel caso di un tumore primitivo, deve essere di almeno 5 mm e in quello di una metastasi di 1 cm.

In Italia si stima che complessivamente siano eseguite 7-8 mila procedure l’anno, il 70% delle quali riguardano il fegato, seguite da polmone e rene. I Centri che nel nostro Paese effettuano questo tipo di procedura sono circa 100. La crescita del numero di procedure di termoablazione è di circa il 2% l’anno, anche se i pazienti “candidabili” potrebbero essere circa tre volte superiori.
Il sistema di termoablazione che si basa sulle microonde, rappresenta un’evoluzione importante rispetto alla tecnologia a radiofrequenza.
“Le microonde sono onde elettromagnetiche prodotte da un generatore, che attraverso un cavo raggiungono l’antenna inserita nel tumore e qui determinano un’oscillazione delle molecole d’acqua con conseguente produzione di calore – afferma Gianpaolo Carrafiello, Professore Ordinario di Diagnostica per Immagini, Radioterapia e Neuroradiologia dell’Università degli Studi di Milano e Direttore UOC Radiologia Diagnostica e Interventistica ASST Santi Paolo e Carlo Presidio San Paolo di Milano – Negli ultimi anni l’innovazione tecnologica  ha messo a disposizione dispositivi in grado di aumentare le dimensioni delle aree di ablazione tumorale che, grazie alla definizione di contorni perfettamente sferici, sono diventate sempre più “definibili” e “prevedibili”.

“I nostri pazienti – continua Carrafiello – vengono trattati in sedazione moderata nella sala angiografica, dotata di una nuova tecnologia, che consente l’esecuzione di una CBCT (Cone Beam Computed Tomography) e il planning preventivo del volume di ablazione rispetto alla lesione da trattare. La degenza è generalmente di 1 o 2 giorni. Eliminando l’anestesia generale, si possono, così, trattare tutti i pazienti altrimenti non eleggibili ad altre terapie per la presenza di comorbilità.”
Per alcuni tipi di tumore come l’epatocarcinoma primario (HCC) con dimensioni inferiori ai 3 cm, le Linee Guida delle Società Scientifiche nazionali e internazionali, hanno stabilito che il trattamento di termoablazione con radiofrequenza o microonde è equivalente alla chirurgia tradizionale.

Per quanto riguarda il tumore renale sotto i 3 cm il successo clinico della termoablazione è intorno al 98%. La termoablazione viene effettuata anche nei tumori “benigni”, particolarmente della tiroide e dell’utero.
“I benefici della termoablazione per il paziente oncologico – sostiene Sandro Barni, Direttore del Dipartimento Oncologico dell’ASST Bergamo Ovest – Treviglio – riguardano prevalentemente il fatto che è una metodica meno cruenta della chirurgia tradizionale, più rapida, meno dolorosa, è ripetibile in caso di recidive, riduce le giornate di degenza e il periodo di malattia, con una conseguenza diminuzione dei costi diretti e indiretti, a vantaggio anche del Sistema Sanitario Nazionale.”

“La termoablazione, a parte casi specifici come l’epatocarcinoma primario – aggiunge Barni – non è sostitutiva, ma complementare alla chirurgia tradizionale e ai trattamenti medici, ed ha indicazioni ben precise, come il volume, il numero e la localizzazione delle lesioni tumorali. Per questo motivo è fondamentale che il paziente sia preso in carico da un team multidisciplinare, che deve essere composto, come minimo, oltre che dall’oncologo, dal chirurgo e dal radiologo interventista. L’importante è, infatti,  capire qual è il paziente giusto e il momento giusto per eseguire questa procedura.”

“Come si è detto – dichiara Giovanni Sgroi, Direttore del Dipartimento di Scienze Chirurgiche dell’ASST Bergamo Ovest – Treviglio – nel caso di epatocarcinoma primario con dimensioni non superiori ai 3 cm la termoablazione può essere considerata equivalente alla chirurgia tradizionale. Ma la metodica trova applicazione anche nelle metastasi epatiche, secondo comunque il razionale oncologico.

La termoablazione di queste lesioni secondarie può essere sostitutiva o integrativa della chirurgia. L’indicazione, decisa in maniera multidisciplinare, di trattare un paziente con metastasi epatiche, deriva da una valutazione specifica, che tiene conto della natura delle metastasi, del loro numero, delle dimensioni e della loro localizzazione, oltre che del loro aspetto biologico. Nella chirurgia avanzata delle metastasi epatiche multiple, la termoablazione va associata e si integra con la chirurgia, estendendo la possibilità di una completa bonifica e radicalizzazione della malattia. Ad esempio, una resezione epatica maggiore della parte sinistra del fegato – che già sacrifica molto tessuto epatico – associata alla termoablazione di una piccola metastasi profonda e centrale nella parte destra del fegato, impossibile da asportare senza togliere ancora molto altro parenchima epatico.”

“Questa procedura dovrebbe essere tenuta sempre in considerazione da tutti coloro che si occupano di patologie oncologiche epatiche – continua Sgroi – poichè permette di aumentare le chances di trattamento nei pazienti con tumore primitivo o secondario. Quando, poi, la chirurgia non è praticabile la termoablazione rappresenta l’unica soluzione praticabile”.
Le criticità riguardano il fatto che non ci sia ancora un’informazione appropriata e diffusa della procedura, non sia garantito un accesso equo alla terapia in tutte le Regioni e non ci siano percorsi specifici.

 

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